giovedì 17 novembre 2011

mammina

Come sempre acciambellata stile gatto-che-non-ho sul letto, continuo a fissare lo schermo bianco sperando in un lampo di divina ispirazione (ma le famose Muse dove accidenti sono?). All'improvviso la seconda pagina di Safari aperta (Facebook, che domande) mi dà l'idea: perché non parlare della mia mamma? Il rischio di sprofondare in un registro da tema da terza elementare è molto alto ma il modello che questa donna può offrire al mondo vale la pena di rischiare la rovina del blog.
Sì, voglio elogiare mia mamma, mi faccio schifo, ma penso che se lo meriti davvero.
Sono pur sempre un'adolescente e non dimentico i momenti in cui la avrei volentieri scambiata con quella di qualcun altro: con quella della mia amica che ha potuto fare il tatuaggio in prima liceo, per esempio, e con quella che, dalla seconda media, accoglieva la frase "dormo da un'amica" con un rilassato sorriso e senza sottoporre la figlia a un terzo grado (ingenua, mia figlia fino ai 25 dormirà a casa in una stanza vicina vicina a quella di mammà).
Le voglio bene, anche se per colpa sua svilupperò dei grossi complessi nel mio relazionarmi con il sesso maschile: ha amato un uomo, finché la morte non li ha tragicamente separati, sempre fedele, un esempio perfetto che un disastro umano come me non riuscirà probabilmente ad emulare.
E' un po' una maniaca del controllo ma sempre e comunque a fin di bene: è letteralmente terrorizzata all'idea che le persone a cui vuole bene possano soffrire.
La sua frase è: "Faccio io, faccio io", bisogna insistere perché si lasci aiutare, anzi forse aiutarla di forza. Solo di recente ha imparato che avere bisogno di aiuto non è una colpa ma una normalissima necessità umana e che a volte non si può tenere tutto in piedi solo con le proprie forze.
Una mamma perfettina, di quelle che non ti fanno invitare il tuo amico a casa perché prima deve assolutamente rifare le fodere dei divani e che, se la donna di servizio non è venuta per un giorno, si scusa per il disordine. E sì, dice "Scommetto che la tua stanza è molto più ordinata di quella di mia figlia" e mi dice che sto a tavola come un'incivile (ha ragione).
Una mamma che, quando conosce le tue amiche, a loro sta immediatamente più simpatica lei di te. Ha una capacità di apprendimento alquanto sviluppata, che le ha permesso in pochi mesi di inserire nel suo vocabolario termini come "sbatti", "scialla", "tra'", ma riesce a dire al massimo "si sono fatti" anche quando intende salti mortali in camera da letto.
E' una mamma che non mi ha mai parlato di soldi ma mi ha insegnato quanto valgono. Non mi ha mai detto cosa scegliere ma mi ha dato gli strumenti migliori per decidere.
Rompe le palle sulla scuola, ovvio, ma sa anche essere molto paziente e tollerante. Quando ride si sfiora al naso e si copre la bocca, non ho mai capito se a mio padre, questo gesto ricorrente, desse veramente fastidio o se si fosse innamorato anche della strana danza della sua mano.
Quando nei film i protagonisti amoreggiano urla "Si baaaciano!", non può farne a meno, ma i suoi commenti sull'argomento sentimental-amoroso rimangono inerenti ai film: è molto discreta e noi figli lo apprezziamo, ci fa sentire grandi.
Ma la cosa straordinaria di mia madre, quella che la distingue dalle altre donne, è la sua forza immensa. Ancora troppo giovane si è vista strappare l'uomo della sua vita ma, nonostante l'immane sofferenza, non ha sprecato un solo secondo nell'autocommiserazione: ha immediatamente afferrato tutti i pezzi della vita che aveva costruito con suo marito e ha cercato di tenerli insieme. Ci abbiamo messo un po' a farle capire che qualcosa sarebbe dovuto inevitabilmente cambiare ma, come dicevo, ha una capacità di apprendimento piuttosto sviluppata e da un po' mio fratello ed io siamo riusciti persino a farle ordinare la pizza a casa e a convincerla a mangiare senza far apparecchiare dalla donna di servizio. Il suo "grazie" è ciò che ci fa andare avanti.





lunedì 14 novembre 2011

breve

Immediatamente dopo la doccia, accasciata sul letto ancora con l'accappatoio, in attesa di accumulare abbastanza forza di volontà da decidere di vestirmi. In questi momenti il computer mi frega sempre, è lì, sul letto, che aspetta solo di accompagnarmi nella mia pura procrastinazione, un po' come le tazze di the interrompi-studio delle 5 del pomeriggio.
Di solito il cazzeggio si conclude con il cuscino bagnato dai capelli che non ho, come direbbe mio fratello, "avuto lo sbatti" di asciugare e il mio arrivo in ritardo a cena.
E' una giornata noiosa, di quelle dove già dal mattino sai di essere incazzato col mondo e per mantenere una linea coerente (ci tieni) vai avanti con questa idea fino a sera: dopo una notte di sonno sarà normale e socialmente accettabile avere un umore diverso.
Nel trascinarsi dal letto al divano ti sembra di avere un'incudine sulla testa e un'orribile emicrania ti proibisce di godere appieno delle meraviglie di discovery real time, insomma, un incubo.
Ci sono giorni, come oggi, in cui mi sembra di vedere tutto attraverso un vetro. Vedo la vita passare, muoversi, ma non riesco ad avere una reazione, quasi come se tutte le cose che osservo accadere appartenessero a un'altra persona. Mentre la Carlotta vera ora vive in un mondo al contrario dove è sempre senza energie, parla poco e se piange è una cosa positiva. Ecco ci risiamo: mi odio quando piagnucolo ma non ce la faccio più, avevo appena trascorso una settimana quasi tranquilla e ora ci risiamo con il dolore. Ho tante persone che mi vogliono bene e cercano di aiutarmi ma a volte la spinta necessaria per cominciare la risalita ce la si può dare soltanto da soli. Dai, almeno la consapevolezza c'è: primo passo effettuato.
Sentirmi così non lo sopporto e dopo i festeggiamenti, fintamente a sorpresa, per il compleanno di mio fratello, scivolo nel letto con la speranza di riuscire a dormire e di trovare nel sonno un qualche conforto. Buonanotte.




domenica 13 novembre 2011

bum

La vita procede si può dire serenamente, un giorno dopo l'altro, sempre troppo in fretta.
Sono passati due anni, è passato un mese. Papà mi manca.
Faccio un po' fatica a vedere i suoi amici, quelli con cui scherzava e lavorava, ma allo stesso tempo so di non poterne fare a meno perché è solamente il suo ricordo che mi spinge ad andare avanti. La cosa che fa più male è vedere la mamma senza l'uomo per cui aveva scelto di vivere e che viveva per lei, riusciremo mio fratello ed io ad aiutarla a sopportare questo vuoto incolmabile? Sapremo farle vivere ancora almeno un secondo di autentica felicità, quella senza un retrogusto di malinconia o rimpianto?
E' strano: quando riesco a concentrarmi abbastanza da arrivare a pensare solo all'attività che sto svolgendo in un determinato momento, è come se il mio cervello si sentisse in dovere di ricordarmi che è successa una cosa grave, come è successa e quali conseguenze avrà sulla mia vita futura. Una specie di allarme installato per paura di dimenticarmi qualcosa, di non dare a una persona l'importanza che merita, di disonorarla.
Mi manca la sua voce, quella incazzata, quella della battuta cinica, quella incantata se si parlava di storia, arte e di libri. Non so se me la ricordo.
Mi manca quando lo vedevo solo alle 7.40 quando mi portava a scuola e alle 20.30 quando tornava a casa: stava bene. Non mi ricordo nulla di nitido degli anni precedenti al 2009 e questa cosa mi disorienta. Non ho mai ripensato a quando stava bene mentre era malato: lui stesso mi insegnava ogni giorno che l'unico tempo degno di essere chiamato vita è il futuro, quello dei progetti, dei sogni che a volte, poche ma importanti, si realizzano.
Con tutti gli insegnamenti che ho ricevuto da lui, dovrei essere perfettamente pronta ad affrontare la vita, semplicemente imitando il suo esempio.
Il problema è che un dolore così grande non so come tenerlo con me senza impazzire.
Non mi viene ancora naturale usare il passato quando parlo di mio padre. Qual'è il tempo verbale adatto a cui ricorrere se mi voglio riferire a tutti e due i miei genitori? Posso usare l'espressione "è un amico dei miei"? Forse nn ci capisco niente perché nella mia vita lui è ancora troppo presente perché le sue abitudini possano essere associate ad un imperfetto.
Ho trascorso una vita a immaginare il giorno in cui avrebbe visto la mia laurea, il mio primo lavoro, il giorno in cui mi avrebbe accompagnata a sposarmi.
Come si fa a convivere con la voragine che viene lasciata da un padre amorevole senza invidiare mai, neanche per un secondo, il suo essere lontano da un mondo dove vivere è così terribilmente pesante?
Si pensa a lui e a come ha affrontato la vita: sempre di petto, senza un lamento, con un coraggio mai esibito ma tanto grande da essere più eroico che umano.



venerdì 11 novembre 2011

amore e altre menate

Scrivere crea dipendenza e il numero sempre più grande di lettori contribuisce non poco ad accrescere le mie manie di grandezza: ancora un paio e posso invadere il Liechtenstein.
Non ho mai avuto una grande considerazione di me e non ho ancora capito con che coraggio ho deciso di fare questa cosa, sono sempre stata la lagnetta del gruppo, quella che continua ad esasperare le amiche con i suoi monologhi a proposito di quanto fa schifo, insomma quella che nei film poi diventa una figa spaziale e conquista l'amore della sua vita.
L'amore ce l'ho e si chiama Enrico ma se mi soffermassi adesso sulla sua descrizione ne risulterebbe un elogio troppo simile a una dedica da seconda media e preferisco degnarlo solamente di qualche presa per il culo onde evitare sdolcinatezze in stile Moccia.
Sono e per sempre sarò la persona più incoerente del mondo sull'argomento sentimentale: solo qualche mese fa le coppiette mi davano una sensazione a metà tra la tristezza e il vomito. Se entravo in un locale, la scelta del tavolo dove mi sarei posizionata a spettegolare con le mie due amiche, inacidite almeno quanto me, era inevitabilmente volta ad allontanarsi il più possibile da fenomeni di scambio di effusioni.
Che dire poi di quando un'amica (e a volte anche un amico, non prendiamoci in giro), che da qualche tempo sta uscendo con qualcuno, arriva da te e pretende che tu le riveli il segreto del corteggiamento discreto, nonostante la cosa più simile ad una relazione tu l'abbia avuta all'asilo, col bambino che mangiava la tempera?
Fortunatamente per le mie amiche mi sono sempre guardata bene dall'esprimere la mia opinione sull'argomento e anche ora mi trovo in difficoltà essendo nel mio caso tutto merito del santo che ha sventuratamente (per lui) deciso di stare con me.
Ecco che ritorna il livello reale di autostima, meno male cominciavo a preoccuparmi.
Il motivo per cui scrivo non è certo dispensare consigli alla Sex & the City, anche perché, detto sinceramente, la mia vita è decisamente meno interessante di quella di Carrie e delle sue amiche. Visto l'orientamento melodrammatico prevalente mi sento più in uno sceneggiato RAI di quelli dove Virna Lisi interpreta la figura paranormale della nonna che non rompe le palle e conduce una vita indipendente, limitandosi a dispensare ogni tanto qualche massima condita di saggezza.
Nella vita reale, però, alla mattina sei orrendo, le madri si incazzano davvero, quando entri nel letto le lenzuola sono gelate, vivi nella fretta perpetua, quelle che dovrebbero essere battute spesso non fanno ridere e la tua stanza quando torni a casa è sempre più disordinata di quando l'avevi lasciata.
Ma mi sento di dire che vale la pena sopportare tutte le monetine che cadono nei tombini e le chiavi di casa perse, pur di provare la sensazione che si ha quando si è in procinto di addormentarsi, appena prima di formulare almeno un paio di buoni propositi (da non rispettare) per il giorno successivo, quella che ti fa dire "andrà meglio domani".






giovedì 10 novembre 2011

sfogo libroso

Giovedì 10 novembre 2011, ore 18 e 52.
Sono alla presentazione di un libro di quelli che non riesco a leggere, di quelli pieni di immagini ricercate che dovrebbero assomigliare a qualcosa di toccante e strappalacrime e leggendo i quali invece non fai altro che perdere il filo al quarto superlativo nella stessa frase.
E, come se non bastasse, lo scrittore si è anche sentito autorizzato a richiedere a un suo amico poeta (siamo ne ventunesimo secolo, le possibilità che a un personaggio del genere si possa associare un aggettivo diverso da angosciante o pesante sono veramente limitate e questo non rappresenta un'eccezione) di introdurre il suo intervento in libreria, ovviamente accompagnato da diverse letture traboccanti di pathos dei passi più significativi dell'opera.
Libro scritto da uno che dice di capire i giovani perchè ha meno di quarant'anni e insegna al liceo e che, nonostante ciò, ha miseramente fallito nel tentativo di risultare credibile impostando la narrazione dal punto di vista di una quattordicenne. La storia narrata è ovviamente tristissima, per alcuni tratti addirittura tragica. Ma la cosa più bella è vedere i lettori che rivolgono all'illuminato in questione le loro domande. I primi quattro quesiti proposti sono riguardo al libro ma ben presto si sfocia nelle domande esistenziali: sulla vita, sul destino, sul perchè delle cose.
Odio le persone che si prendono troppo sul serio e un professore che suppone (o finge) di avere le risposte a domande che anche il Dalai Lama ha evitato di porsi per vivere più sereno, credo di poterlo annoverare alla categoria.
La libreria è piena di ragazzi come me: 18 anni, ultimo anno di liceo, qualche decina di seghe mentali irrisolte in testa. Lo adorano. Bah, al perchè ci penso domani.

Chiudo il macbook e sfuggo quasi magicamente a una cena con l'autore, peccato ero tanto volenterosa di approfondire la sua visione ontologica esistenziale. Rimango a cena fuori ma con un amico di papà che si lascia scappare una frase davvero meravigliosa "Bobo (mio padre) ci ha insegnato che la vita non bisogna godersela ma viverla, che è una cosa diversa".
Pensateci: è troppo vero.


mercoledì 9 novembre 2011

2

Sono passate quattro settimane da quel giorno e se all'inizio la parziale mancata realizzazione dell'accaduto e la tensione mi hanno tenuta in piedi (il lunedì seguente ero già in aula a magna a sostenere un compito di fisica), ben presto è arrivato il momento o meglio sono arrivati i momenti in cui ho dovuto fare i conti con me stessa.
Non so dire come sono stata e come sto, so solo che la cosa più spaventosa di un dolore così grande è che non lo percepisci mai davvero, non ne sei consapevole: ti avvolge, ti stritola, ti schiaccia, ti toglie quel respiro con cui potresti piangere.
Mi sono sempre sentita in dovere di farmi vedere dagli altri forte e coraggiosa: con mio padre quando si è ammalato, con mio fratello ma soprattutto con mia madre quando papà e morto, terrorizzata dall'idea che anche solo uno di loro potesse cedere.
I primi tempi dopo che è mancato ho pianto poco, anche da sola, non so dire perchè ma gli occhi mi incominciavano a bruciare solo quando qualcuno veniva verso di me per abbracciarmi e farmi le condoglianze sentendomi però subito in dovere di confortare chi in lacrime annaspava in cerca di una parola di conforto. Odio essere commiserata e anche papà lo odiava. Detesto quell'espressione: la faccia di chi sta pensando "poverina"e trovarmela davanti prima di irritarmi mi fa provare una sensazione molto simile all'imbarazzo e ciò mi mette terribilmente a disagio. La frase più odiosa? "Ora ti vedrà sempre", che più che confortante diventa irritante per una razionalista atea convinta come me. Mi piacerebbe riuscire ad avere una fede ma non ci riesco, per quanto invidi chi riesce ad essere credente la vedo come una specie di consolazione, una risposta forzata alle cose inspiegabili, accettata da chi non è capace di resistere con le proprie forze ai colpi della vita.
Credo in una cosa soltanto: il ricordo. Nessuno muore se resta vivo il ricordo di chi lo ama; se sei stato amato non importa quanto tu abbia fatto il modesto durante la vita: sarai immortale. Mio padre sosteneva di essere uno stronzo e di avere un carattere orribile ma una chiesa piena di persone in lacrime lo ha smentito. Quando ho visto quanta gente gli voleva bene ho capito che uomo straordinario mi aveva cresciuta e sono stata fiera più che mai nella mia vita di assomigliargli e di essere stata da lui venerata per 18 anni.
Mi ha sgridata, criticata, messa in castigo e mi sono beccata anche qualche schiaffone (del tutto meritato) ma ero e sempre sarò il suo orgoglio, quella che frequentava un liceo classico tra i più duri di Milano senza mai aver avuto un debito e che sapeva stare a tavola con i "grandi" a discutere mangiando tartufo e crostacei da quando aveva 2 anni.
Ho un solo rimpianto: non essere riuscita a prendere in tempo una decisione sul mio futuro e a dargli un'idea di quello che sarei diventata una volta adulta.
Pensandoci meglio però questo rimorso non ha ragione di esistere dal momento che mi conosceva meglio di chiunque altro e sicuramente avrà avuto un'idea precisa di quello che sarei stata "da grande".
Io non lo so ancora, il panico da maturità convive ancora con il dubbio sull'università da frequentare ma sono sicura che il mio futuro corrisponderà alla sua previsione.
Previsione che non mi avrebbe mai e poi mai confidato per paura di influenzare la mia scelta che voleva fosse completamente libera e personale. Diventi grande quando perdi un genitore ma anche quando finalmente ammetti che "i tuoi genitori hanno sempre ragione"(o quasi).

martedì 8 novembre 2011

incipit

...dopo un lungo periodo di esitazione anche io ho deciso di sfruttare l'aspetto puramente democratico del web appellandomi al diritto di prendermi uno spazio tutto per me.
Mi chiamo Carlotta, ho 18 anni e una testa che rischia di esplodere data la miriade di cose diverse che la riempiono. Tre settimane fa ho perso mio padre, venuto a mancare dopo due anni di malattia e forse la decisione di aprire questo blog corrisponde anche alla ricerca di un modo per sfogarmi e non rischiare di impazzire. Non fraintedete però: la mia vita è tutt'altro che triste. Vivo con mia madre, una donna fantastica che non si sa con quale energia riesce a far andare avanti tutto e tutti, sempre entusiasta della vita e mio fratello, quasi 16 anni, che nonostante dichiari di odiarmi per non rovinare la sua immagine di "cioè-tipo-io-sono-troppo-bello-cioè-figo" è davvero maturo per la sua età (e, perdonatemi, per essere un maschio) e mi trasmette tanto affetto.
Poi c'è la nonna che abita vicino a noi e che nonostante l'età e le egoistiche turbe senili e qualche lamentite acuta non molla e continua a starci accanto.

Mio padre è morto di tumore, dopo due anni di lotta in cui non l'ho mai sentito una dico una volta lamentarsi. Mai.
Un uomo straordinario (e non lo dico solo io) che è stato capace di insegnare a tutti quelli che lo hanno conosciuto che cos'è il coraggio, quello vero. Ha affrontato la più grande delle disgrazie con una dignità unica, senza mai voler essere commiserato, cercando sempre di stemperare la tensione quando leggeva negli occhi di chi aveva davanti lo sgomento di chi si sente impotente davanti a quella cosa strana che è la morte.

Esco di casa la mattina del 13 ottobre 2011, un giovedì. Sono preoccupata: papà non è nel suo letto ma in sala, sul divano, da qualche giorno deve farsi aiutare dal respiratore ed è più comodo se sta seduto.
Non sono stupida: continuo a ripetere a me stessa che è solo questione di tempo, che se mamma piangeva mentre mi parlava l'altro giorno allora è tutto vero. Ma quanto tempo? Ore? Giorni?Mesi?Anni? Quante cose posso condividere ancora, quando posso rivelargli le mie promesse per il futuro? Non ho il coraggio di chiederlo.
Sto per uscire di casa, un po' agitata: oggi devo recuperare la verifica di filosofia che non ho fatto, la professoressa mi interrogherà. Giro la maniglia della porta, devo uscire, non voglio arrivare in ritardo, poi torno indietro e vado a salutare papà. Per un attimo, nel buio del salotto, mi sembra assopito e decido di non disturbarlo. Dai esco.
Mentre esco mia madre mi chiede se ho salutato mio padre, rispondo di no, che non voglio disturbarlo mentre sta dormendo, ma lei mi dice che è sveglio.
Corro in sala, lo abbraccio, gli stringo la mano e gli dico "Ciao papà" e lui risponde "Ciao amore".

Ho preso 7 in filosofia. Ho mandato un messaggio alla mamma per dirglielo e sembrava molto contenta, adoro quando sono fieri di me, soprattutto per la scuola: la prima cosa che mi hanno chiesto quando papà si è ammalato è stata di prendere bei voti e di non farli preoccupare. All'uscita mi fermo un attimo a chiacchierare seduta sul mio motorino nuovo (papà alla fine ha convinto la mamma a prenderlo e mi ha insegnato a guidarlo, evvai), poi torno a casa.
Sono proprio felice chissà se papà sa del voto, ah poi devo anche dirgli della palestra... Arrivo davanti al cancello di casa e vedo Valeria, grande amica di mia madre, che sta parcheggiando la moto lì davanti.
Cazzo è successo qualcosa me lo sento. Ah no, oggi papà si faceva ricoverare, magari sta meglio e andiamo a trovarlo tutti insieme. Non penso a nulla, solo a come alzare la porta del box e a canticchiare mentre una decina di gesti automatici quanto inconsapevoli mi riaccompagnano fino all'ascensore. Undicesimo gesto: premo il tasto del piano. Dodicesimo gesto: mi guardo nello specchio lercio, che faccia sfatta che ho devo dormire di più, direbbe mia madre.
L'apertura delle porte dell'ascensore è come al solito accompagnata da quel fastidioso rumore metallico come di pentole che cadono per terra.
Mia madre davanti a me sul pianerottolo, scuote la testa. Non c'è più.